sabato 18 aprile 2015

Verginità - parte 1 -

di Michele Petrino

Anche oggi era uscito prima dal lavoro. Niente di irregolare intendiamoci. Era stato autorizzato, avendo espletato in anticipo le formalità che il suo ruolo di capo-redattore richiedevano. Aveva infatti cominciato a lavorare di buon mattino, addirittura un’ora prima dell’inizio dell’apertura ufficiale della redazione e dunque aveva adesso diritto ad uscire almeno tre quarti d’ora prima dell’orario di chiusura. Era tutto registrato, niente era contestabile. Guadagnò frettolosamente la strada che lo portava al proprio appartamento. Le strade erano deserte. Evidentemente erano in pochi quelli che avevano fatto la sua scelta, in modo da poter uscire prima dal lavoro. Non tutti usufruivano dei pur esigui spazi di discrezionalità che l’Ordine dava ai propri cittadini-lavoratori. Non tutti però avevano una passione come quella di Giancarlo Giannini. Una passione del tutto legale, intendiamoci. Nella vita di Giancarlo Giannini non c’era nulla che potesse fare ombra alla sua reputazione di perfetto giornalista, di perfetto cittadino e di perfetto militante nel partito dell’Ordine. La sua passione era il cinema. Giancarlo Giannini adorava il cinema. Ne scriveva anche sul suo giornale, anche se ormai dopo anni di lunga carriera scrivere dei film stava diventando ripetitivo. Da decenni ormai non si producevano più nuovi film, da decenni la creatività sembrava aver abbandonato la mente dell’uomo, che non riusciva più a battere nuove strade narrative, ad avere nuove idee.

L’Ordine aveva allora stabilito che queste erano state evidentemente esaurite, provvedendo a bloccare i fondi al Ministero dello Spettacolo, che adesso si occupava solo di mettere in scena antichi drammi romani, dove alla fine il deus ex machina risolveva tutti i problemi. Sempre. Una ripetitività, quella di scrivere sempre degli stessi film, che si appalesava nonostante quello che sembrava aver soltanto allungato il mestiere del critico cinematografico: il virus “Virginity”. Il virus Virginity era il sogno di ogni appassionato di cinema… Il virus Virginity permetteva di gustare qualunque film del catalogo messo a disposizione dall’Ordine come fosse la prima volta. Questo poteva accadere sempre, bastava iniettarsi il virus nella tempia ed esso agiva nel chip della memoria che presiedeva alle funzioni mnemoniche del cervello. Il virus riconoscendo il codice del film ne cancellava il finale, in modo da farlo apparire sempre del tutto nuovo ed inatteso, sempre capace di stupire. E così gli spettatori dovevano solo scegliere il film senza preoccuparsi del fatto che lo avessero già visto, bastava il virus Virginity. Se questo risolveva i problemi degli spettatori, non aiutava certo chi, come Giancarlo Giannini, si ostinava a tenere nel proprio giornale una rubrica cinematografica. I film sopravvissuti alla grande Epurazione non erano poi così tanti e dopo anni gli articoli finivano per parlare sempre delle stesse pellicole. 

Cercò le chiavi del proprio portone nella borsa a tracollo che portava da sempre, come fosse una parte di se stesso: pochi avrebbero saputo immaginarlo senza quella borsa, senza il vestito sdrucito ai limiti della tolleranza da parte dell’Ordine, senza gli occhiali spessi che continuamente riportava in cima al naso, frutto di un problema emerso durante l’ultima operazione di correzione della vista, che, come da routine, perfezionava gli occhi di tutti i soggetti muniti della tessera sanitaria dell’Ordine. L’oculista aveva stabilito che c’era qualcosa che non andava nella retina di Giancarlo Giannini, cosa che aveva fatto tremare l’uomo che ben sapeva dove finivano i soggetti giudicati malati o inadeguati alla nuova società che l’Ordine, a costo di alcune spiacevoli, ma indispensabili 1 limitazioni, aveva costruito. Quei soggetti venivano mandati al Lazzaretto e a nulla sarebbe servita la sua lunga militanza nel partito per scongiurare una tale evenienza.

Il suo esilio nel Lazzaretto sarebbe stato solo un’altra delle spiacevoli, ma indispensabili limitazioni che il Partito doveva compiere per tenere insieme la perfetta società che era riuscita a costruire, risolvendo una volta per tutte il problema della inconciliabilità di visioni differenti del mondo. Quel giorno Giancarlo Giannini aveva sudato a lungo, nonostante il freddo tavolo di metallo che gli ghiacciava le gambe. Aveva ripensato a tutte le volte in cui aveva visto accadere quello che temeva stesse per capitare a lui. Aveva visto amici, compagni di partito, familiari non riuscire a superare le visite mediche o quelle ideologiche ed essere destinati al Lazzaretto, costretti ad abbandonare quel paradiso in terra che l’Ordine era riuscito a creare alla fine di una storia, quella dell’umanità, sanguinosa e rivoltante. Il suo ricordo, quella volta, si era fissato sullo sguardo di animale in fuga che Dino Buzzati gli aveva rivolto, fissandolo dalla strada, mentre pigiava disperatamente sul bottone del suo videocitofono, con le parole non più necessarie, perché già scritte sul suo volto: “Fammi entrare, nascondimi”. Giancarlo Giannini quella volta non aveva aperto. Era restato a guardare l’amico di tutta una vita supplicarlo, con quella muta espressione che non aveva bisogno di parole. Non lo aveva mai più visto. Seduto su quel freddo tavolo metallico, Giancarlo Giannini rivide gli occhi del suo amico Dino, che si accavallarono all’immagine dell’oculista che gli stava di fronte, quasi a rimarcare l’inadeguatezza della sua retina. 

Poi il medico aveva sancito che si trattava probabilmente di un difetto risolvibile con degli occhiali provvisori, che avrebbero permesso al soggetto di lavorare adeguatamente, fino alla prossima visita, quando sarebbero riusciti ad operare quella retina, risolvendo così molto di più che un problema alla vista. Giancarlo Giannini sentì una gioia gonfiargli dentro, scacciò l’immagine del suo amico Dino e prese a ringraziare calorosamente il dottore che lo aveva visitato. Credeva davvero che alla prossima visita si sarebbe risolto tutto. Lo credeva, non lo sperava semplicemente. Posò le chiavi di casa nell’apposito ripiano, tolse la giacca ormai logora del suo abito e si lasciò sprofondare sul morbido divano di casa. Familiare e piacevole, la sensazione di essere a casa lo colmò di gioia. Adesso mancava solo la proiezione del film e tutto sarebbe stato perfetto, ma doveva sbrigarsi, per questo era uscito prima dal lavoro: in questo modo aveva appena il tempo sufficiente per vedere il film che si era prefissato di guardare quella sera. Aveva fatto i calcoli, lo avrebbe finito appena prima del coprifuoco che imponeva a tutti i cittadini dell’Ordine di spegnere qualunque elettrodomestico e di cessare ogni attività. Prese l’astuccio del film, aprì la custodia. Inserì la scheda che istantaneamente riversò sul suo terminale il film contenuto nella scheda. Con fare sicuro estrasse la fiala, la scosse leggermente, lesse meccanicamente la scritta impressa sul vetro, “Virginity”, e utilizzando l’apposito ago posto sulla sommità della fiala lo conficcò all’altezza della tempia. Subito sentì nel sangue come il muoversi di strani corpuscoli estranei, che andavano alla ricerca delle informazioni da eliminare. Ma in realtà era solo suggestione: si trattava di un fenomeno che avveniva a livelli infinitesimali, non percepibili dall’uomo, ma sufficienti a cancellare la parte di memoria contenuta nel chip che ad ogni cittadino veniva installato alla nascita.

Sentì una breve sensazione di euforia, ma non avrebbe saputo dire se dovuta al virus o alla imminente visione del film. 2 2. Sentì il piacere arrivare, preannunciato, come sempre, da un diffuso senso di calore che sembrava avvolgere il suo membro eretto e duro. Per incrementare il piacere che avvertiva arrivare, dette un’ultima occhiata al neo che si stagliava sulla carne bianca del collo della donna.

Ne immaginò la perfetta superficie liscia e la sensazione che la sua lingua avrebbe trasmesso alla sua mente e al suo pene, leccando quella carne soda e ben tornita. La sua mano libera sembrò stringere qualcosa che sarebbe dovuto essere all’altezza del seno della donna, poi più niente. La razionalità spariva, come sempre, anche se solo per un attimo, mentre espelleva inutilmente il suo seme. Continuava finche ce n’era, poi smetteva e arrivava il down consueto, quello post-coito. Compì le brevi operazioni di pulizia e, appena finite, si allontanò dal terminale trascinando la sedia su cui si era seduto. Seguirono brevi momenti, anch’essi caratterizzati dall’assenza di pensiero, poi gli occhi, rinunciando a combattere una lotta che sapevano vana, ritornarono sulla figura della donna che campeggiava sullo schermo. Ne contemplò la bellezza, la sensualità che non riusciva a trovare in nessuna delle altre. La sua pelle sembrava sul punto di esplodere, tanta era la vitalità che la giovinezza sembrava donare a quella persona. I capelli neri le ricadevano sul viso, incorniciando un volto immerso nell’oscurità, come voleva il protocollo dell’Ordine. “E’molto più che perfetta!” si ritrovava spesso a pensare Edmondo, guardando quelle foto che l’Ordine metteva a disposizione dei propri cittadini. Erano ormai anni che selezionava quel soggetto, tra i tanti che venivano offerti dal menù. Ogni cittadino aveva l’onere di sottoporsi alle sedute fotografiche. Poi un apposito collegio decideva quali fossero i soggetti maggiormente idonei a stimolare l’attività auto-erotica degli uomini e delle donne dell’Ordine, che ogni notte dal proprio terminale potevano scegliere un compagno o una compagna sempre diversi.

Questo problema per Edmondo non si poneva: era ormai tre anni che non faceva che tornare sempre e solo su quelle immagini. Sul Soggetto 24. Per proteggere la privacy e il senso del pudore, i volti dei vari soggetti del catalogo venivano oscurati, in modo da non sapere mai chi fosse realmente la persona che si stava osservando. Edmondo pensava spesso alla storia di una sua vecchia amica, Isabella. Isabella aveva sviluppato un’ossessione per la sua stessa immagine. Passata la soglia dei trent’anni, la donna aveva visto il proprio bellissimo corpo sfiorire. Era stata inoltre scartata agli esami dell’Ordine per l’accesso al Matrimonio e alla Procreazione, probabilmente per via del suo basso livello di fertilità. Isabella non riusciva a rassegnarsi al passare degli anni, che non avrebbe portato la nascita di una figlia, tanto agognata, che avrebbe fatto rivivere nella sua persona la bellezza che un tempo era stata della madre. Occorreva un rimedio ed Isabella lo trovò nelle foto che aveva scattato diciottenne per il catalogo erotico dell’ordine. In quelle foto la sua bellezza rifulgeva ed anche se il suo viso era in ombra, mai avrebbe potuto confondere la perfezione di suoi seni e dei suoi fianchi. Dopo alcuni mesi di ricerca, sfogliando le pagine virtuali del catalogo, era riuscita ad individuare il numero con il quale era stata catalogata per il piacere, ci avrebbe scommesso, di tantissimi uomini. Isabella aveva allora preso a masturbarsi guardando le proprie immagini scorrere sullo schermo, mentre delle calde lacrime si mischiavano agli umori prodotti dalla sua vagina

Quello che Isabella Santacroce non poteva prevedere, era che l’Ordine monitorava anche le attività auto-erotiche dei propri cittadini. Isabella era spiata. 3 Fu giudicata malsana e moralmente indegna. Fu mandata al lazzaretto. Edmondo non la vide mai più. Uno squillo risuonò nella casa. Edmondo accese l’apparecchio e vide formarsi sullo schermo l’immagine di un uomo. Il volto era severo e rigido, di una autorità auto-imposta da anni di addestramento: era certamente un funzionario dell’Ordine. << Signor De Amicis? L’ordine l’ha convocata per domani pomeriggio alle diciotto e trenta. Sede Centrale. La aspettiamo.>> La conversione fu troncata bruscamente. Edmondo non ne fu stupito, ma sentì un brivido corrergli lungo la schiena.

La sede centrale dell’Ordine aveva un che di imponente, dovuto probabilmente alla architettura del palazzo che cercava di incutere timore già solamente grazie alle sue linee solide e rigide, che sembravano estendersi fino al cielo. Un cielo grigio, che parve a Edmondo un pessimo segnale. Un avvertimento. Delle guardie armate gli si fecero incontro, controllarono il suo nome sulla lista e lasciarono passare l’uomo senza che nessuna espressione trapelasse dai loro volti. Edmondo si ritrovò all’interno di un atrio immenso, in cui le pareti si estendevano altissime fino a un soffitto, che pareva lontano, lontanissimo. Notò una figura che camminava nella sua direzione. Arrivato a portata di orecchio cominciò a parlare: << Buonasera Signor Edmondo De Amicis. La stavamo aspettando per discutere alcune questioni con lei. Prego mi segua, la accompagnerò io.>> I due si incamminarono senza una parola. Salirono una lunga scala che li portò davanti a un largo portone. << Prego, si accomodi.>> disse l’uomo, fermandosi sull’uscio, evidentemente il suo compito finiva lì. Edmondo avanzò cauto dentro la stanza, dove ritratti severi coprivano le lunghe pareti. Solo alla fine notò un tavolo posto sul fondo della stanza, dove sedevano due uomini. Edmondo fece un timido cenno di saluto con il capo ed automaticamente si sedette sulla sedia che sapeva essere destinata a lui. 

<< Buonasera Signor De Amicis. La abbiamo convocata qui per discutere con lei i motivi del mancato rinnovo della sua tessera del Partito. Come lei sa bene, la militanza nel Partito è libera ed affidata alla discrezionalità del cittadino, dunque non siamo qui per imporle nulla. Semplicemente volevamo conoscere i motivi del mancato rinnovo. Inoltre dato che lei aveva in precedenza aderito al Partito, vorremmo parlare delle ragioni del suo allontanamento.>> Seguì una lunga pausa, che Edmondo non seppe decifrare. Restò lì, attendendo altre parole del funzionario, chiedendosi se invece quella pausa volesse dire che era il suo turno per parlare. Fu l’altro funzionario a parlare: << La sua storia personale è abbastanza travagliata – disse sfogliando delle carte – a diciotto anni milita nel partito di opposizione e si iscrive al nostro Partito appena un mese prima della grande Epurazione. Un tempismo notevole, complimenti, ma che molti tra i suoi collaboratori del tempo hanno spesso scambiato per opportunismo. Questa non è la versione ufficiale, sia detto tra di noi, ma vede, qui in questo ufficio del Partito abbiamo il dovere di interrogarci sulla effettiva fede dei nostri cittadini. Capirà che è per il bene stesso della nostra comunità.>> Ecco che arrivava la prima allusione alla fede nella ideologia dell’Ordine, che faceva aleggiare automaticamente lo spettro del Lazzaretto.

Come scosso dal pensiero dell’esilio in quel letamaio, Edmondo ritrovò la parola e cercò di articolare una difesa a quelle che percepiva come delle precise accuse: << La ringrazio innanzitutto per l’opportunità concessami dal Partito in questa sede. La colgo con grande piacere, in modo da poter eliminare, spero una volta per tutte, le voci di questa mia presunta mancanza di fede nel Partito dell’Ordine. Voci che purtroppo mi accompagnano fin dal mio ingresso nel Partito stesso. Non biasimo nessuno attenzione, se io fossi preposto al vostro stesso ufficio avrei anch’io il medesimo sospetto. Ma adesso io vorrei chiarire una volta per tutte, le ragioni del mio passaggio dall’ormai dissolto partito di Opposizione al nostro Partito. La mia militanza in quel partito va ascritta a un furore giovanile mal indirizzato, da cui però ho tratto un sicuro giovamento: entrare in così stretto contatto con il mondo che gravitava attorno a quel partito, alla sua cultura, respirare quella ideologia e toccare con mano il mondo da loro proposto, mi ha pian piano aperto gli occhi, mostrandomi quale fosse la vera via da seguire. Quella del Partito dell’Ordine, ovviamente. E’ stata a partire da questa presa di coscienza che è maturata la decisione di aderire al nostro Partito. Il fatto che da lì a poco si sia poi realizzata la giusta presa del potere è un fatto solo casuale, che non ha influito su una decisione maturata nel mio intimo. D’altronde sono certo che il fascicolo che l’Ordine tiene su di me parla anche del mio impegno per la nascita del nostro nuovo stato, del mio contributo alla grande Epurazione, che ha portato alla formazione del Lazzaretto, come giusto rimedio al proliferare di malattie sempre più difficili da debellare.>> Edmondo riprese fiato convinto di aver fatto una buona requisitoria. Persuaso di aver trovato il tono giusto: deciso, disponibile, ma orgoglioso. Una domanda però parve gelarlo: << E allora perché non rinnovare la tessera?>> Edmondo non ebbe il tempo di articolare una vera risposta nella sua mente, così la inventò mentre pronunciava lentamente le parole: 

<< Il mio impegno attivo al servizio del Partito si è decisamente ridotto, anche a causa del normale ricambio generazionale di cui il Partito ha bisogno per mantenere viva la sua forza. Ciò però non ha fiaccato la mia fede nel fatto che il mondo così come organizzato dal Partito sia il migliore possibile. L’assenza di malattie della pelle è ormai acquisita da diversi anni, così come i disturbi respiratori che stavano diventando purtroppo un vero flagello, dovuto anche alla scellerata gestione precedente, si sono praticamente estinti…>> << …tranne che nel Lazzaretto…>> lo interruppe il primo dei suoi interlocutori, allungando il collo evidentemente interessato dalla risposta che avrebbe dato il soggetto esaminato. << Beh, certo… ma quello è un sacrificio che serve per far prosperare chi ha guadagnato il diritto a vivere serenamente.>> Seguì un lungo silenzio. Nessuno dei due interlocutori volle romperlo, limitandosi entrambi a fissare freddamente il cittadino che sedeva davanti a loro. Edmondo cercò di trattenere tutte le emozioni. Si sforzò di apparire freddo e rilassato, nascondendo nel profondo la sensazione di panico che andava impadronendosi di lui. Sapeva di essere in totale balia di quei due soggetti, che avrebbero potuto in tutta tranquillità non credere alle sue parole ed avviare le pratiche che lo avrebbero portato in poco tempo al Lazzaretto. Nella sua testa scorrevano veloci le immagini che l’Ordine metteva a disposizione del Lazzaretto e se anche in giro si diceva che fossero immagini “gonfiate”, ovvero esagerate appositamente dal Partito stesso, al fine di incutere maggiore timore nei cittadini, il timore che creavano non era di certo artefatto. D’altronde esagerazione o meno, era comunque pur vero che era là, che venivano mandati tutti i soggetti malati, tutti i dissidenti e coloro i quali si ribellavano a un ordine e a una tranquillità che solo apparentemente poteva sembrare limitare le libertà, ma che in realtà rendevano possibile una vita sicura e tranquilla. No, non c’era posto nella stessa società per la libertà e per la felicità.

Di questo ora doveva convincersi Edmondo. Fare tabula rasa di tutto ciò che aveva creduto, di quello che sentiva ancora non morto dentro di se, diventare un foglio bianco su cui far scivolare dentro poche frasi: la sicurezza è più importante del libero pensiero.

Se ci avesse creduto lui per primo, anche gli altri non avrebbero dubitato della sua fede. << Signor De Amicis. Vogliamo credere alla sua buona fede. D’altronde, in effetti, il suo curriculum mostra come negli anni lei abbia fornito una buona collaborazione alla nascita e allo sviluppo della nostra società. Se lei permette, provvederemo a farle assegnare dal Partito un qualche incarico, in modo da farla sentire più realizzato e di nuovo dentro le dinamiche della politica attiva. A meno che lei non sia di avviso contrario…>> << No, no… sarebbe senz’altro una gioia poter servire nuovamente il Partito in maniera attiva. Provvederò al più presto a rinnovare la tessera del Partito.>> Il primo interlocutore fece cenno a Edmondo che poteva andare. Edmondo si alzò dalla sedia sentendo dentro di sé la gioia immensa che si prova dopo aver scampato un pericolo. Si sentì invadere da un senso di gioia e di amore per la vita.




Dunque alla fine la madre era in realtà morta da tempo e ad uccidere la donna e l’investigatore era stato sempre lui, Norman Bates. Era lui che aggrediva le sue vittime travestito da donna, con una parrucca in testa. Giancarlo Giannini si alzò dalla sedia soddisfatto. Aveva visto per l’ennesima volta quello che riteneva essere uno dei capolavori del cinema. Aveva gustato nuovamente per la prima volta tutte le emozioni e le sorprese di una trama a orologeria, congegnata in maniera superba e supportata dalla regia di uno dei più grandi autori di sempre. Vedere film come questi lo metteva in un particolare stato d’animo. Sentiva di appartenere ad una ristretta cerchia, quella di chi sapeva cogliere la genialità di certe opere, andare al di là del piacere semplice della sorpresa e del finale inaspettato. Sapeva discernere l’arte presente nell’opera, capirne la creatività, la capacità di rapire lo spettatore, di portarlo in un mondo inesistente creato solo dalla sua finzione, solo dal genio di chi quella storia aveva scritto e di chi l’aveva filmata. Una gioia sterile lo invadeva assieme a una bizzarra tristezza, che sentiva incombere su tutto un genere umano incapace di sognare e di creare, capace solo di fruire passivamente di storie inventate da altri, in altri tempi. Poi d’un tratto arrivò il coprifuoco. Tutti gli elettrodomestici di casa si spensero automaticamente, lasciando la casa illuminata semplicemente da una luce soffusa, che nel corso della notte si sarebbe anch’essa spenta lentamente. Come ogni notte si sarebbe seduto al suo tavolo, illuminato fiocamente dalla poca luce e avrebbe aperto il quaderno che teneva nel primo cassetto in basso. Aprendolo avrebbe trovato solo una pagina bianca, che lo fissava severamente, sfidandolo forse. Lui l’avrebbe guardata a lungo e avrebbe finito per addormentarsi su quella pagina non violata, ancora intatta. Vergine. 

Quel giorno in ufficio tutto sembrava scorrere lentamente. Giancarlo Giannini aveva passato quasi tutta la giornata in uno stato d’animo distratto e poco concentrato. Cercava di ricordare cosa avesse sognato quella notte. Ricordava solo dei frammenti. Avevano a che fare con il film che aveva visto la sera precedente. Sentiva che era importante ricordare cosa avesse sognato, ma sembrava impossibile riuscirvi. E non soltanto a lui…sembrava che tutti gli uomini avessero perso la capacità di ricordare i propri sogni, che evidentemente si erano fatti sempre più labili, incapaci di reggere nella memoria all’apparizione della luce del giorno e perciò destinati a disperdersi. Giancarlo Giannini vedeva nei sogni una possibile salvezza per quella creatività che sembrava aver abbandonato l’uomo. Giannini era uno di quelli che non si era rassegnato. Segretamente, ogni sera cercava di scrivere qualcosa. Frugava dentro se stesso, ma niente sembrava riuscire a trapelare dalla scorza che la dura vita moderna aveva formato attorno alla sua anima. Non un’idea nuova, né la forza di mandarla avanti, con passione. I sogni erano una traccia, se esistevano voleva dire che la nostra mente era ancora in grado di creare situazioni, storie, fatti verosimili. La nostra mente era ancora capace di narrare, solo che non riuscivamo più ad ascoltarla. Queste parole gli riportarono alla mente la storia del suo vecchio amico, quello che diceva sempre: “ Non abbiano più memoria, non abbiamo più storia. Questo chip che ci impiantano nel cervello fin dalla nascita ci impedisce ogni moto d’animo, è un pacemaker per il nostro intelletto: lo tiene in vita, ma alla condizione che batta al tempo che dice lui. Tu li ricordi i tuoi sogni, Giancarlo? Io no, eppure dovrebbe essere una cosa normale, gli antichi ricordavano i loro sogni…Se non sogniamo gesta eroiche, non possiamo poi realizzarle, se non ne scriviamo non possiamo ispirarle ai migliori di noi. Come faremo a uscire da questo vicolo cieco, se non abbiamo più neanche l’arte a fornirci le risposte che cerchiamo, a darci gli stimoli di cui abbiamo bisogno, a dimostrarci che l’uomo può anche essere grande, che può morire per le sue idee. Come faremo?” Così il suo amico Dino parlava spesso e la gente aveva cominciato a prenderlo per un tipo strambo, che, va bene… magari erano anche giuste le cose che diceva, ma a renderle poco credibili era che a dirle era proprio quel tipo disordinato, che tirava questi discorsi sempre fuori luogo, sempre a sproposito, guadagnandosi la fama di noioso, di guastafeste, di imbecille da non ascoltare che tanto tra un po’ la rifà la sua solita tirata. L’unico che aveva preso sul serio le parole di Dino Buzzati era stato il Partito e da quel momento nessuno aveva dovuto più sentire le sue strambe riflessioni, i suoi atti d’accusa sconclusionati. Fammi entrare, nascondimi… 




Quella mattina, in redazione, si discuteva quale sarebbe stata la copertina che sarebbe andata in stampa quella settimana. In lizza c’era l’articolo relativo alla manifestazione del Partito tenutasi alla fine del mese appena passato, dove si erano ribaditi i punti fondamentali per una Società Ordinata. L’elenco era il solito: assenza di procreazione libera, perenne ricerca di obiettivi produttivi studiati personalmente per ogni cittadino, utilizzo di capi d’abbigliamento prodotti in serie al fine di non creare invidie relative al possesso, rispetto degli orari imposti dalle tabelle stabilite dal Ministero delle Attività Produttive e via discorrendo in un insieme di regole ormai patrimonio del comune vivere della società ordinata, che nessuno ormai metteva più in discussione. Già, a meno che non si riprendesse tutti a manifestare il proprio dissenso…magari velatamente, magari tramite delle metafore, ma cominciare a insinuare il dubbio, a scardinare le coscienze dei cittadini ed inserirvi il dubbio, un piccolo seme, che poi sarebbe germogliato… << Beh mi sembra non ci siano dubbi, non credete? La copertina va alla manifestazione.>> La voce che echeggiò alle spalle di Giancarlo Giannini non colse di sorpresa l’uomo: l’aveva udita in molte altre occasioni. Era una voce femminile, dura e affilata. Sembrava essere stata educata, tramite attenti e ripetuti esercizi, a una impersonalità che la donna si sforzava di ricreare anche nella sua persona. Giancarlo Giannini si voltò, ben sapendo chi si sarebbe trovato davanti e constatò, ancora una volta, la sconfitta di quella donna, che voleva apparire asettica, ma non riusciva a contenere la sua delicata bellezza. Due occhi glaciali si mossero su di lui, quasi a voler scoraggiare qualsiasi tentativo di dissentire dal suo autoritario ordine, o forse per scoraggiare qualsiasi complimento alla sua persona: quell’uomo era solito rimanere come incantato davanti a lei.

A colpirlo, più che la bellezza, era quella strana gabbia con la quale il rigore del contegno sembrava voler confinare la piacevolezza del proprio aspetto. Una fascinazione quella di Giancarlo Giannini che non era sfuggita alla donna, che reagiva come aveva imparato a fare ormai da sempre: creando quante più barriere fra lei e chi le stava intorno. D’altronde il suo ruolo nel Partito non era di quelli che si guadagnano facilmente: solo al prezzo di lunghi sacrifici e di un fermo autocontrollo, si poteva ambire a diventare l’agente preposto al Controllo della Stampa Cittadina. Nel passato il proliferare delle testate giornalistiche aveva creato un caos informativo, che incoraggiando un relativismo, a volte solo formale, fomentava solamente confusione e disordine.

Quando il Partito fece notare, in un famoso discorso pubblico, come la gran parte delle testate, ognuno nel proprio settore, avesse in realtà un unico modo di presentare le stesse notizie, nessuno ebbe il coraggio di obiettare alla tesi che i diversi giornali fossero solo un’inutile ripetizione, un ostacolo a una omogeneità che avrebbe reso l’informazione più snella e sicura, eliminando inoltre uno dei fattori che più di ogni altro determinava i disordini sociali e ideologici del tempo precedente all’Ordine: la presenza di affollati e molteplici punti di vista. Era questo il grande nemico da combattere per il Partito: la presenza di una frammentazione di idee ed opinioni che era l’antitesi della Società Ordinata, la sola che invece poteva condurre l’uomo alla felicità. Il Partito aveva dichiarato guerra a un relativismo che metteva in dubbio qualunque verità: occorreva scegliere delle linee guida, immodificabili come postulati e a quel punto seguirle fino in fondo, con decisione. Le linee guida giuste da seguire erano, ovviamente, quelle del partito dell’Ordine, le quali ancora una volta sarebbero state ribadite nell’articolo del settimanale, che doveva andare in stampa ormai tra pochi giorni. No, non c’erano obiezioni da parte di Giancarlo Giannini. Era evidente dal suo sguardo, nel quale solo i più attenti avrebbero potuto notare come un fuoco di brace appena visibile, cui l’uomo affidava la sua dignità e il sogno utopico e ridicolo di vedere un giorno l’arte ritornare su questa terra. 

Erano pensieri pericolosi questi e l’uomo lo sapeva bene, ma sapeva anche che quel pensiero nascosto non era visibile all’esterno, specialmente da chi, come quella giovane donna, non guardava mai in faccia un altro individuo, se non con quell’espressione fredda ed assente. Un’espressione inadatta a carpire i sogni nascosti nel doppio fondo di quegli strani occhi, che rifiutavano persino il laser delle operazioni di routine che il Partito imponeva ai suoi cittadini. << Si, certo…Si discuteva più che altro del titolo, non tanto dell’argomento da trattare. La proposta principale per il titolo era…>> << Ordine e felicità. E’ questo il titolo più adatto.>> << Mi perdoni Agente Placido, ma è lo stesso titolo che abbiamo usato ultima volta per la stessa manifestazione…>> << Un giornalista come lei, sa bene che la gente ha poca memoria…>> Incassato uno sguardo remissivo da parte dell’uomo, l’agente Placido girò con grazia di centottanta gradi e si incamminò con un passo al contempo sinuoso e rigido, che venne seguito da Giancarlo Giannini, che non potè fare a meno di notare il delizioso neo che si stagliava sulla parte di collo lasciato nudo dalla divisa.




continua.......... 







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