sabato 2 maggio 2015

Verginità - parte finale -

di Michele Petrino

Giancarlo Giannini era ben coscio che da un momento all’altro quella porta avrebbe potuto aprirsi. Era ben consapevole di cosa probabilmente lo avrebbe aspettato, ma dentro di se sentiva di non essere pentito. Anche se probabilmente aveva sacrificato la sua grigia e piatta vita; anche se probabilmente lo aveva fatto per gente che non lo meritava e che con ogni probabilità non avrebbe raccolto il messaggio, che con il suo gesto, aveva voluto lanciare. Sentiva ciononostante di aver fatto la cosa giusta e di averla fatta con creatività. Questo pensiero gli riempiva l’essere di una gioia, che mai avrebbe più sperato di provare. Aveva lasciato un segno. Al suo gesto sarebbe seguito un clamore, che magari sarebbe stato subito soffocato da chi di dovere, ma quel tanto bastava a se stesso. Per lui era sufficiente. Venisse adesso quel che doveva venire. Tornò sui suoi fogli. Quelli contenuti nel quaderno cui aveva affidato per lungo tempo le sue speranze. Speranze che adesso aveva visto realizzate e che poteva toccare con mano. Tra le sue dita, frusciavano le pagine che aveva riempito con le sue storie. Si fermò a riflettere a tutti i personaggi che aveva inventato, da quando aveva riacquistato la capacità di scrivere. Pensò poi a tutti quelli di cui avrebbe potuto ancora scrivere e sentì nascere dentro di se uno strano attaccamento alla vita. Questa sensazione gli procurò una fitta allo stomaco, che cercò di vincere rileggendo il racconto, che tra i pochi che aveva scritto, era quello che preferiva. Parlava di un minorato mentale, un povero freak che finiva i suoi giorni in un manicomio criminale.

Quella storia lo caricò di tristezza, ma di una tristezza diversa da quella scaturente dalla sua probabile ed imminente fine. Lo colpì invece una malinconia relativa alle esistenze dei personaggi che aveva creato e che aveva cercato di riempire di vita, ma che venivano puntualmente ed inesorabilmente abbandonati in mezza alla loro vita fittizia, non appena la sua penna smetteva di raccontarli. Ma era davvero fittizia la loro vita? Ripensando a loro Giancarlo Giannini provò un misto di nostalgia e tristezza, tipico di quando si ripensa alle persone care ormai defunte. Ma questo sentimento non era rivolto ai suoi cari, quelli che aveva visto trascinare, nel corso degli anni, nel Lazzaretto. Bensì era rivolto a tutti i personaggi che aveva creato e a tutti quelli che sentiva ancora affollare la sua mente, premendo affinché lui raccontasse anche la loro, di storia. Fu una riflessione involontaria, che lo spinse a considerare quanto poco aveva ormai in comune con il suo mondo, con il suo tempo. Sentiva la sua vita interiore pulsare con maggiore foga rispetto a quella concreta e quotidiana che ogni giorno lo avviliva. Quando aveva scritto per la prima volta, la gioia lo aveva sopraffatto. Perso in quel turbine di euforia, non aveva analizzato la vera origine di quel moto di felicità così totale. Ma adesso, nel buio fiocamente illuminato della sua notte, era facile scorgere la verità: non era più solo. La sua solitudine era stata lenita dalla compagnia offerta da quei labili personaggi che aveva creato. Quelle storie gli avevano fatto dimenticare il Lazzaretto, la sua vita, le sue paure. Lo avevano elevato nello spirito, dandogli la forza di compiere quel gesto folle: scrivere quell’articolo. Quella sfida eroica e stupida che aveva lanciato al Partito. 

In fondo il suo vecchio amico Dino Buzzati aveva ragione: è l’arte del narrare che spinge le persone ad essere più grandi di quelle che sono, a ergersi come giganti, a suggergli una grandezza possibile e dunque da realizzare. Con lui aveva funzionato. Adesso avrebbe atteso le conseguenze delle sue azioni, senza provare a sottrarsi ad esse. Tentare di sfuggirle sarebbe stato del tutto inutile.

Sentì il tempo muoversi sul suo corpo immobile, avvertì i suoi momenti futuri morire, uccisi da quello che sapeva lo avrebbe atteso. Allo stesso tempo, avvertì come anche le sue creature morivano: non bastava rileggerne le gesta per riportarli in vita. Aveva bisogno di scriverne affinché li sentisse condividere la loro esistenza con la sua. D’altronde che senso avrebbe avuto creare altri personaggi, se poi avrebbe comunque dovuto abbandonarli, cristallizzarli in quella parola fine, che inevitabilmente terminava ogni suo racconto. Ripensò al povero freak, chiuso in quel manicomio criminale, incompreso da una società troppo diversa per poterlo accettare e sentì su di sé la sua solitudine. Capì allora che doveva riportarlo in vita. Lasciare che da dovunque quella vita fosse uscita, avrebbe dovuto continuare a lasciare che questa fuoriuscisse. 

Con una freddezza e una facilità che lo spaventarono, prese la sua decisione: ne avrebbe scritto ogni giorno la vita, lo avrebbe liberato da quel posto oscuro in cui lo aveva rinchiuso e gli avrebbe fatto vivere avventure che solo scrivendo si sarebbero rivelate. In suo favore, avrebbe sacrificato se stesso. Un se stesso verso cui sentiva sempre meno attaccamento. Avrebbe sacrificato Giancarlo Gianni, caporedattore del settimanale cittadino in favore di un piccolo freak, che dalla pagina del suo quaderno chiamava a gran voce una vita che solo per brevi istanti il suo creatore gli aveva donato. D’altronde che senso aveva più Giancarlo Giannini? Avrebbe raccontato quella vita ogni giorno in un atto d’amore senza fine, lasciando fuori dalla sua porta la realtà, che lo aveva deluso per tanti anni e verso cui sentiva di aver fatto tutto quello che aveva potuto. Ora spettava agli altri raccogliere il suo invito. Avrebbe rifiutato una realtà, che però sapeva, che da un momento all’altro, sarebbe piombata in casa sua. Giancarlo Giannini era ben coscio che da un momento all’altro quella porta avrebbe potuto aprirsi. Anni più tardi, nella sua nuova vita, Giancarlo Giannini avrebbe spesso ripensato a quel proposito che lo aveva investito con così tanta forza, quel pomeriggio dell’ultima giornata della sua vita precedente. Avrebbe ripensato con tenerezza all’infelicità che lo aveva spinto a quella scelta e tante volte si sarebbe chiesto se davvero avrebbe saputo tenere fede a quel proposito, oppure sarebbe restato solo una riflessione puramente intellettuale, poetica magari, ma che non avrebbe trovato realizzazione concreta.

Cosa sarebbe successo, insomma, se dopo aver formulato quei pensieri, non avesse sentito la porta del suo appartamento schiantarsi? Cosa, se non lo avessero portato via e mandato al Lazzaretto? 

Il tempo era passato lentamente e si era portato via con se anche quella giornata. Di giornate ne erano passate già due, da quando l’agente Placido era entrato nel suo ufficio, sbattendogli in faccia la rivista incriminata. Dunque erano già due giorni che Edmondo De Amicis aspettava provvedimenti. Quella calma era inspiegabile. Era certo che il Partito avrebbe punito gli autori di quel gesto. Sapeva come andavano quelle cose: non sarebbe stato difficile accusarlo e poi provare la sua infedeltà ideologica. Pensò al tipo che aveva scritto l’articolo, Giancarlo Giannini, e lo immaginò inteso anche lui a prendere mentalmente commiato da tutte le abitudini quotidiane, che il Lazzaretto avrebbe loro strappato via. L’orologio segnava le diciotto. Non gli restava altro che chiudere l’ufficio e incamminarsi fuori in strada. Dall’uscita del grande palazzo, in cui si trovava la sua stanza, si poteva vedere estendersi il lungo lembo di terra brulla, oltre la quale sapeva esserci il Lazzaretto. Erano sempre pochi secondi, poi distoglieva lo sguardo con fare rassegnato. A quel punto, prendeva la via che lo avrebbe portato verso il centro della città e si perdeva nelle sue riflessioni: in tutta sincerità non aveva nulla che avrebbe perso, quando sarebbe stato mandato in esilio in quel letamaio. Le strade della città si arricchivano di colori sempre più vividi, man mano che ci si inoltrava al suo interno. La notte stava per calare definitivamente e, prima del coprifuoco, restavano ancora alcune ore, che Edmondo avrebbe sfruttato per bere qualcosa in qualche locale. Poi avrebbe fatto ritorno al suo appartamento, esausto e con la testa che gli girava. L’alcool, d’altronde, era uno dei pochi piaceri “virtualmente” pericolosi, che il Partito non aveva ancora eliminato.

Non era mai stato un abitudinario ed anche quella volta scelse un locale in cui non era mai entrato. Come un condannato prossimo alla morte, pensava che ogni conoscenza negata a quel punto sarebbe stata una conoscenza persa. Si fermò un attimo davanti alla porta, per permettere a un uomo di uscire. Mentre attendeva che liberasse l’uscio del locale, si voltò in direzione della strada, che fredda invitava i passanti ad entrare e scaldarsi. Il suo sguardo incontrò due occhi conosciuti, che si erano impressi nella sua memoria per la loro glacialità. Sebbene anche adesso, quello sguardo conservasse la sua impenetrabilità, parve in un attimo evidente ad entrambi il motivo di quell’incontro: l’agente Placido lo stava seguendo. Vestiva abiti borghesi. Era la prima volta che Edmondo la vedeva in quella mise così anonima, ma che non riusciva a scalfirne l’autorità e la bellezza. Edmondo non potè fare a meno che pensare al Soggetto 24 e al patetico amore che aveva nutrito verso quella figura, che ogni sera faceva capolino dal suo terminale. Ripensava al legame che aveva instaurato con quel soggetto, alle speranze ipocrite che aveva affidato a quel sentimento e si sentì piccolo e ridicolo. Provò una vergogna quasi tangibile: il pensiero di se stesso e di tutte quelle serate passate in compagnia di quel fantasma gli riusciva intollerabile, tanto patetici gli apparivano adesso quei momenti. Abbassò lo sguardo, preda di questi sentimenti ed entrò nel locale. Trovò posto al bancone. Il locale era deserto, se si faceva eccezione per i pochi avventori impegnati al tavolo da biliardo.

La porta si aprì nuovamente e da essa fece capolino la figura dell’agente Placido, che si avvicinò con quel suo fare, sinuoso e rigido allo stesso tempo. Edmondo cercò di placare l’emozione che sentiva scorrere dentro di se. Ad aiutarlo gli sovvenne un pensiero curioso: a tormentarlo non era il rischio che la sua presenza poteva avere in termini concreti, ma il pericolo che lei venisse a sapere o potesse intuire quello che aveva rappresentato per lui. Il Lazzaretto pareva non preoccuparlo più: adesso pensava solo al Soggetto 24, ma si faceva forte della consapevolezza che i suoi sentimenti sarebbero rimasti un segreto impenetrabile. << Non è sorpreso di vedermi qui?>> chiese la donna fissandolo << No. Piuttosto sono sorpreso di non aver ricevuto già da prima sue notizie…>> << Ho riflettuto molto sul suo gesto. Sul perché ha fatto quello che ha fatto.>> << E cosa ne ha concluso? >> << Non sono ancora arrivata a una conclusione. E‘ per questo motivo che non ho ancora deciso di riferire le sue parole a chi si sta occupando del suo caso.>> << Dovrei ringraziarla?>> << Non mi interessano i suoi ringraziamenti. Però è giusto che lei sappia che al momento la sua posizione è dubbia e sta passando al vaglio della commissione competente, incerta se giudicare la sua azione come un semplice errore o piuttosto come complicità in un atto eversivo. Può immaginare che peso potrebbe avere la menzione delle sue parole nel giudizio finale…>> << Non capisco perché mi sta dicendo queste cose… Cos’è questo? Un ricatto?>> << Non siate ridicolo, Signor De Amicis. La mia è piuttosto curiosità… Già, lo confesso, è una debolezza, ma se in passato tendevo a reprimerle, adesso credo di essere arrivata a un punto tale della mia vita e della mia carriera, che posso anche concedermi qualche piccolo capriccio.>> << Come ad esempio?>> << Come ad esempio conoscere un sovversivo!>> disse con una durezza che fece tremare Edmondo << Un sovversivo… - riprese Edmondo mentre faceva cenno al barista, che si era allontanato dal bancone e adesso si avvicinava a grandi passi – ma cos’è un sovversivo, in un mondo come questo? >> Dopo aver preso le ordinazioni, il barista versò loro da bere e ritornò nel suo angolo a seguire la partita di biliardo, che evidentemente doveva essere molto appassionante. << Un sovversivo è chi rifiuta il mondo perfetto che il Partito ha creato!>> << Perfetto?>> disse ironico Edmondo << Si, perfetto! Ha sentito bene! Il Lazzaretto è soltanto un male necessario. E’ un problema di risorse: sarebbe bellissimo se ce ne fossero a sufficienza per tutti, ma purtroppo non è così. Bisogna fare delle scelte, sacrificare se è il caso e in seguito ridistribuire la possibilità di fare ingresso nella società.>> << Conosco la lezione: l’ho studiata anch’io a scuola. Non mi ha convinto allora… cosa le fa credere che ci riuscirà lei?>> << Si rende conto delle cose che dice? Non ha più nemmeno un briciolo di paura di quello che potrebbe capitarle?>> << Andiamo… Sappiamo bene che se solo volesse, potrebbe farmi condannare. Perché fingere allora?>> La donna continuò a fissare Edmondo e a lui parve che da quello schermo impenetrabile si facesse strada un sentimento strano, che mai avrebbe detto possibile in quegli occhi: una sorta di strana ammirazione. << Lei è un tipo particolare, sa? Non ho mai incontrato gente come lei. E le assicuro che ne ho visti tanti di sovversivi. Gente che ho giustamente contribuito a mandare al Lazzaretto. Ma erano diversi da lei. Non nell’ideologia, badi bene, che era la stessa ed era ugualmente disprezzabile. No… il fatto è che gli altri avevano paura. Mentre li portavano via, scalciavano come pazzi, piangevano come bambini. Non capisco se il suo è coraggio oppure semplice indolenza.>> << Lasci che la mia figura rimanga ammantata di mistero…>> rispose ironico Edmondo, mentre la fissava negli occhi. La donna rispose con un sorriso, poi proseguì con una risata che aveva un che di nervoso, quasi a voler scrollare un imbarazzo che adesso manifestava evidente: << Che diavolo ci faccio qui con lei?>> << Forse vuole esaudire l’ultimo desiderio di un condannato a morte…>> pronunciò in un sussurro Edmondo, mentre avvicinava la sua bocca al bellissimo volto della donna. Le loro labbra si incontrarono e lui sentì fremere e tremare il corpo del suo aguzzino. Posò una mano sul collo di lei, dove sapeva avrebbe trovato quel neo, che tante volte aveva fissato dallo schermo del suo terminale. Lo accarezzò delicatamente, fino a sentire sospirare la donna. L’agente Placido sentì una fitta riscaldarle il ventre come mai gli era successo, durante quei momenti di piacere, che la notte si procurava. Sentì dentro di sé montare la voglia di fare l’amore con quell’uomo, verso cui fin dalla prima volta che lo aveva visto, aveva provato un strana attrazione. Anche durante quel suo primo bacio, non smise mai di pensare alla violazione che stava compiendo, ma per qualche strana dinamica, la cosa sembrava aumentare il suo desiderio. Pensò che a quest’ora il barista o i clienti impegnati nella partita di biliardo si erano sicuramente accorti del loro gesto. Probabilmente li stavano fissando meravigliati di una così palese ed aperta violazione delle regole sociali. Ma non un lampo di preoccupazione investì l’agente Placido, che si ripetè che stava soltanto adempiendo al suo dovere. 

Una consapevolezza che divenne concreta, quando la porta del locale si aprì nuovamente, lasciando entrare la squadra dei suoi agenti. Si staccò veloce dalla calda morsa di quel bacio. Sorprese se stessa per la rapidità con cui seppe riacquistare quella freddezza che aveva imparato ad usare come un’arma. Fissò con occhi vuoti e gelidi l’uomo che da lì a poco avrebbe fatto portare via. L’uomo gli restituì uno sguardo spento, ma che gli sembrò pieno di dignità. Lottò con se stessa per non abbassare lo sguardo. Continuò ad osservarlo, mentre lo portarono via. Non un grido, non un lamento. Uscì dal locale senza dire una parola, lasciandola da sola con una strana ed indefinibile sensazione.

EPILOGO I due uomini si fissavano dall’interno del cellulare che li trasportava. Intorno a loro, visibile dai finestrini blindati, scorreva veloce la brulla distesa di terra che li avrebbe portati al Lazzaretto. Restarono occhi negli occhi per un indefinibile lasso di tempo. Fu l’uomo con gli occhiali il primo a rompere gli indugi. Le sue labbra si storsero verso l’alto in un sorriso ironico, che scatenò il riso anche dell’uomo più giovane che aveva di fronte. Intorno a loro, le pareti del furgone quasi accecavano per il loro asettico candore. Entrambi conoscevano l’identità del compagno di viaggio. Nessuno li aveva presentati, ma non ce ne sarebbe stata la necessità. Così tra poco il Lazzaretto li avrebbe accolti. Lo spauracchio di sempre, finalmente stava per avvolgerli con le sue spire. Quella risata disperata aveva contribuito ad alleggerire la tensione, ma era evidente il nervosismo dei due uomini, che se avevano accettato l’esilio con rassegnazione, non riuscivano adesso a restare altrettanto indifferenti durante quello che con ogni probabilità sarebbe stato il loro ultimo viaggio. Edmondo poggiò il viso sul finestrino. Sentì il vetro freddo sulla pelle e fissò con occhi vacui la terra che scappava via a velocità impressionante. Poi vide i dettagli del paesaggio farsi sempre più distinti e comprese che il cellulare stava decelerando. Sentì un brivido attraversargli la schiena. Lanciò un’occhiata smarrita all’indirizzo del compagno, che gli rispose con una sguardo affettuoso, che gli sembrò rassicurante. Il furgone fermò completamente la sua corsa. Il vetro dei finestrini si oscurarono di colpo. 

Seguirono alcuni istanti di silenzio assoluto. Un rumore sordo annunciò la fine della corsa: gli sportelli posteriori si aprirono e le guardie che avevano caricato i condannati sul cellulare, li fecero adesso scendere. Un grande portone bianco li sovrastava adesso. La porta del portone scivolò di lato e gli agenti fecero cenno ai due uomini di entrare. Cosi ci siamo, pensò Giancarlo Giannini e insieme al compagno si incamminò nella stanza che si offriva ora loro. Appena furono entrati, sentirono il pesante portone scorrere in senso inverso, sigillando, come una tomba, un mondo che non avrebbero mai più rivisto. La stanza che li aveva accolti, si illuminò di una luce quasi accecante. I due uomini furono costretti a socchiudere gli occhi o a pararsi con la mano. Una voce proveniente da un altoparlante ordinò loro di sedere sugli sgabelli sistemati in un angolo della stanza. I due prigionieri ubbidirono e, sistematisi come loro ordinato, ascoltarono quello che la voce aveva da dire: “ Benvenuti nel Vero Mondo Libero. Le vicende da voi vissute hanno dimostrato la vostra idoneità a fare parte della Società Democratica, che dopo la Grande Epurazione ha esiliato tutti i cittadini indolenti, fascisti e violenti in quella società che chiamano Ordinata. Nella società in cui state per fare ingresso, non troverete le restrizioni cui siete stati abituati, dopo anni passati al di là del confine. Qui troverete la democrazia, la libertà di espressione, la libertà di amare e di sbagliare nelle proprie azioni. Troverete la stampa libera e la libertà di espressione artistica. Troverete uno stato che si preoccuperà di tutti: dal più ricco al più povero, ma che starà attento a non mortificare l’animo umano, livellandone le differenze, primo e fondamentale patrimonio dell’umanità. Tutto ciò che avete sempre saputo è falso. 

Il Lazzaretto non è mai esistito. Siete stati prigionieri e adesso siete liberi”. Le luci della stanza cominciarono ad abbassarsi di intensità. I due uomini restarono muti ed incapaci di smettere di fissare quella luce, che adesso diventava sempre più flebile. Prima che la stanza sprofondasse definitivamente nel buio, una porta si aprì rivelando una luminosità diversa, naturale, che non accecava, ma anzi spingeva con il suo tepore a inoltrarsi dentro di lei. Giancarlo Giannini sentì qualcosa muovergli dentro. Un sentimento di felicità che rimosse in un attimo, tutti quegli anni in cui era stato inconsapevole prigioniero di un Lazzaretto, che mai avrebbe potuto immaginare tale. Ma adesso aveva superato la prova: aveva dimostrato di essere degno. Di amare la libertà. Si voltò di scatto, cercando il viso del suo compagno d’avventura. Ma una volta voltatosi, trovò soltanto uno sguardo torvo. Nella mente di Edmondo si affollarono mille pensieri, mille immagini. Il viso di Isabella Santacroce ritornò, così come quello di tutti i suoi vecchi compagni di lotta politica, che probabilmente adesso avrebbe potuto rincontrare. Raggiungere, seppure in ritardo. Un ritardo frutto solo della sua colpa. Di lui che non aveva saputo meritare prima quel paradiso, che adesso lo attendeva. Ma fra tanti i volti che affollavano la sua mente, uno prevaleva su tutti. Era quello dell’agente Placido. Di quella donna che lo aveva aiutato, inconsapevolmente, a superare le sue prigioni. Di quella donna che amava quel regime, che invece avrebbe dovuto essere la sua prigione. Di quella donna che era felice, tra le presunte sbarre di una società creata a sua immagine e somiglianza. L’ultimo pensiero di Edmondo De Amicis, prima di varcare la soglia della stanza e inondarsi di quella luce dall’aspetto così benevolo, fu quale fosse davvero il paradiso. 




FINE

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