sabato 9 maggio 2015

IL TEMPO DELL'ASCOLTO

di Eleonora e Alvise

26 Settembre 2014, Iguala, Guerrero, Messico. Due aggressioni ravvicinate. Di ritorno da un volantinaggio, 43 studenti della scuola Normal Rural di Ayotzinapa vengono sequestrati. Tre uccisi sul posto. Un pullman di calciatori, scambiati per manifestanti, viene attaccato: l’autista, un ragazzo e una passante vengono uccisi. Agenti della polizia locale, federale e dell’esercito messicano gli autori materiali di questo massacro.

Ottobre 2014. Nasce l’assemblea de Los padres y madres de Ayotzinapa. Con cadenza mensile promuove manifestazioni congiunte a livello nazionale, assemblee e differenti forme di interlocuzione con la società civile, i media e i poteri statali. “Aparicion con vida”, l’unica domanda. É altissima la partecipazione sociale a incontri e mobilizzazioni. Il governo chiude le indagini: “Ci dispiace, i ragazzi sono morti”, politici locali in combutta con i narcos gli autori e i mandanti.

21 Dicembre 2014 – 3 Gennaio 2015. L’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (Ezln) e il Congresso Nazionale Indigeno (Cni) organizzano il Primer Festival Mundial de Las Resistencias Y Las Rebeldias contra el capitalismo. Dopo il No estan sol@s rivolto il 7/5/2011 al mondo intero e incarnato in quel contesto dal Movimiento por la paz con justicia y dignidad promosso da Javier Sicilia contro la desaparicion, l’Ezln offre il proprio posto nel Festival a Los padres de Ayotzinapa come voce collettiva da cui tutte e tutti possiamo apprendere e che ognuno possa fare propria. Dopo il festival, che percorre diverse zone della Repubblica Federale Messicana, proseguono le azioni, i presidi, i cortei, gli incontri.

16 aprile 2015. Comincia la Eurocarovana per Ayotzinapa: in tre mesi quattordici paesi d’Europa accoglierannoEleucaudio, contadino e padre di uno studente scomparso (Mauricio Ortega), Omar, studente della scuola e compagno dei 43 ragazzi, e Roman, attivista Centro de Derechos Humanos de la Montaña Tlachinollan.

29 aprile 2015. La Carovana arriva a Roma. Roma per Ayotzinapa, rete promossa da differenti realtà politiche cittadine, organizza l’accoglienza e la giornata di mobilitazione: un presidio sotto l’ambasciata, un dibattito all’Università La Sapienza e una cena sociale di benvenuto. Il Comitato delle Madri per Roma Città Aperta consegna una lettera all’ambasciata con cui rifiuta integralmente la versione ufficiale del governo sui fatti di Ayotzinapa e prede parola con Los padres come già aveva fatto durate il Festival messicano, quando i sentieri del dolore, della rabbia e della fiducia s’erano incrociati per la prima volta.

Foto di Malinka NoveNove‎ (che ringraziamo)
Fue el Estado

“Abbiamo detto la verità… per questo il governo ci guarda male, ci teme e ci disprezza, perché abbiamo detto la verità e di fronte a questa non dovrebbero solo ascoltarci e riconoscerci, ma, come disse Fidel Castro, devono ammirarci”. Così parla Omar durante il presidio che si è tenuto a Roma, davanti all’ambasciata messicana, il 29 mattina. Gli studenti di Ayotzinapa, i genitori dei 43 ragazzi scomparsi (o sequestrati come ammonisce Eleucaudio) e man mano una sempre più grande fetta della società messicana, stanno dicendo la verità in un diretto confronto con le autorità istituzionali, nazionali e internazionali.Contro le loro retoriche e le loro bugie.

La mobilitazione fa propria la pretesa giustizia: quei 43 studenti, tra i 20 e i 23 anni, sono stati fatti sparire vivi e vivi devono esser riconsegnati alle famiglie e alle loro comunità. Il movimento messicano, nato attorno a questa consigna, si è da subito spinto oltre, indicando con lucidità l’autore di un crimine feroce che minaccia la società messicana e quindi l’intera umanità: “fue el Estado”, urlano i primi cori di piazza, “è stato lo Stato”. Uno Stato che oggi si mostra più che mai integralmente desautorato della propria spinta sociale e che forse solo fra qualche anno sapremo riconoscere al pari di una dittatura.
L’esperienza quotidiana di milioni di persone è l’esperienza viva che, resa consapevole dall’ascolto e dal confronto, permette alla delegazione di delineare con inquietante semplicità le trame di una situazione sociale, quella messicana, fatta di soprusi, violenze e sfruttamento, una situazione in cui, come ci racconta Roman, “la tortura è diventata un metodo di investigazione generalizzato”.

Anche per questo criticano chi tende a “personalizzare i problemi”, a cercare il colpevole nei vertici delle istituzioni, in questo caso nel presidente messicano Peña Nieto. Certo, non bisogna dimenticarsi dei volti di chi comanda e di chi è mandante responsabile di simili massacri, ma è altrettanto importante riconoscere che “i problemi stanno nelle relazioni e nei rapporti di potere. Per questo quello che non vogliamo è diventare come loro, riprodurre quelle stesse relazioni che ora danneggiano il Paese”.

Una critica di ampio respiro

E così, dicono, è diventato fondamentale per la loro lotta, e per avere giustizia, approfondire una critica di ampio respiro,“contro il capitalismo e contro lo Stato”, contro quei sistemi di potere che organizzano le relazioni sociali e che, in nome del “progresso del Paese”, causano le guerre più sottili perché rese volutamente invisibili.

Questa è la verità. Questa è la sfida di cui ci para Omar iniziata ad Ayotzinapa sette mesi fa. Una sfida che riguarda il dir vero, l’atto di parresia, laddove il parresiastes, per i greci antichi, era chi dice il vero perché sa che è vero in una coincidenza tra esperienza, opinione e verità: “non è solo che il parresiastes è sincero nel dire qual è la sua opinione; è che la sua opinione è anche la verità” (Foucault). Una verità che detta espone a un pericolo mortale. “La prima lotta che vogliamo portare avanti, in Messico, è quella contro l’indifferenza e contro chi continua a ripetere il discorso del potere”. Le parole di Omar scuotono. Fanno riflettere su quanto sia difficile, oggi, scalfire un apparato di governo che vive nell’organizzazione dei discorsi dominanti, utilizzando i mezzi di comunicazione per distruggere sistematicamente qualsiasi spazio di confronto e condivisione di senso, qualsiasi spazio in cui possa esser detta la verità.

L’invisibilità di questa guerra che viene dall’alto (l’arriba di cui parlano gli zapatisti) è costruita da un apparato di menzogne che addomesticano e ingannano le persone tramite immagini commoventi e bugiarde, tramite false lacrime di commiserazione. Se da una parte, racconta Omar, “siamo tutti sempre più abituati a vedere e sentire di morti, tutti i giorni, nella vita e in televisione”, dall’altra, di fronte a un massacro come quello di Ayotzinapa, lo Stato inscena “ermosos teatros de telenovelas”, invade i media mainstream con dichiarazioni sofferte, promesse di giustizia mancate, per arrivare, pian piano, ad archiviare il problema, a interrompere le investigazioni apportando false prove, e a voltare pagina verso questioni ben più importanti, come l’incremento dei profitti economici di una sempre più ristretta élite di governo.

Ribellarsi qui e ora

“Io non mi sento seguace di un’ideologia precisa” ci dice Omar la sera, durante la cena, “certo non mi fido più di questa democrazia, sono contro le avanguardie politiche e per un modo di organizzazione sociale davvero orizzontale, in autonomia, che parta dal basso, ma più di tutto credo che si debba insegnare, sempre e ostinatamente, la possibilità di criticare e di ribellarsi, in ogni momento della vita, anche all’interno degli stessi collettivi politici”.

A chi parlare?

“Si pensa, nell’approccio classico alla lotta, che più si diffonde la conoscenza di un problema più è facile risolverlo. Noi abbiamo capito che questo non è vero. Abbiamo viaggiato molto, abbiamo gridato le nostre ragioni, abbiamo fatto controinformazione ma i governi non rispondono. Si pensa anche, a volte, che sia importante accettare le richieste di fiducia del governo, ma anche questo è sbagliato. All’inizio ci siamo seduti al tavolo con le istituzioni per aprire delle trattative, ma non v’è stato risultato alcuno”. Così prosegue Omar, durante l’incontro pubblico sul prato dell’Università La Sapienza, di fronte a un centinaio di studentesse, studenti e persone che si sono fermate ad ascoltare.
Non è facile dire la verità quando nessuno ti ascolta, a maggior ragione quando questo qualcuno sono le stesse istituzioni colpevoli del massacro. E quindi, dove volgere lo sguardo?

Ayotzinapa è stata l’occasione di un “risveglio generalizzato”. Una singolare occasione per ridirezionare lo sguardo, per criticarlo, per sondarne la potenza e i limiti. Innanzitutto, racconta Roman, “hanno dimostrato alla società intera che gli Stati di oggi sono pronti a tutto… a uccidere, sequestrare e torturare indiscriminatamente”. Germana, una delle madri dell’associazione Madri per Roma Città Aperta, intervenuta dopo di lui, ha chiamato “fascismo del terzo millennio” questo sistema per cui “tortura e assassinio diventano pratiche di governo”. Il Messico “democratico”, alleato degli Usa e del Canada nel Nafta e interlocutore politico e commerciale dell’Unione europea, conta 30 mila desaparecidos nell’ultimo decennio e cento mila morti per la narco-guerra.

Siamo usciti dalle nostre comunità

“Quando sono accaduti i fatti di Ayotzinapa eravamo impreparati e c’era un forte bisogno di autodifesa”, dice Roman, e poi Omar: “Avremmo voluto delle armi per difenderci, ma non le avevamo”. In una situazione così complessa, a seguito di un massacro manu militari di ragazzi ventenni, inermi di fronte a istituzioni di governo (locali, federali e nazionali) che rifiutano di fare giustizia mostrandosi per la seconda volta e definitivamente complici degli assassinii, studenti e genitori decidono di “uscire dalle comunità”.

“Ci siamo chiesti: come si fa? Come si lotta contro lo sfruttamento, la tortura, il sequestro dei nostri compagni? … Siamo usciti dalle nostre comunità, da Guerrero, per incontrare chi già si organizzava, gli altri movimenti che costruiscono autonomia, i popoli originari, le comunità indigene, gli zapatisti, e tutti loro ci hanno insegnato che i diritti non si chiedono ma si esercitano, che è dal basso che si pratica il diritto all’autodeterminazione, al territorio, alla libertà, alla sicurezza”.

Raccontano come quest’esigenza di autodifesa e di organizzazione abbia aperto a nuovi incontri, a forme di solidarietà e di “compromiso”. Parola spagnola molto significativa che non ha traduzioni esatte in italiano. Indica la capacità di stringersi in un’alleanza sincera, fatta di fiducia e di pratiche condivise, indica quella disposizione integrale di ciascuna e ciascuno che non è sacrificio alienante ma piena consapevolezza dell’indissolubile interdipendenza della propria libertà individuale da quella degli altri, da una collettività e quindi da un progetto di vita comune.

Il tempo dell’ascolto e dell’agire comune

Tutto questo è accaduto in questi sette mesi durante i quali, come ci racconta Omar a lato dell’incontro, sono nati nuovi comitati di lotta, locali e nazionali, si sono rafforzate e allargate le assemblee comunitarie e studentesche. Nuovi legami di fiducia si sono espressi nella nascita di collettivi politici e realtà sociali organizzate dal basso.

Così, con questa postura, aperta all’incontro e al compromiso, sono venuti a parlare in Europa. Seguendo un insegnamento che ha accompagnato la loro lotta da settembre a oggi, hanno voluto rivolgersi a quel “noi” contingente, in divenire, aperto, sempre da costruire… in cui anche chi scrive si riconosce e si proietta, alle realtà sociali del basso, ai collettivi politici, alle persone. Non alle istituzioni governative, sebbene a queste sia rivolto il loro grido di rabbia.

Ci hanno interpellati, parlando di condivisione e di organizzazione, dicendo che “la loro lotta è anche la nostra lotta”, è la lotta di tutti coloro che si ribellano, che resistono. Così ci hanno detto, invitandoci a continuare a lottare. La parola che più risuonava durante l’incontro con la carovana era “solidarietà”, una parola certamente importate, ma che non può risolversi in un enunciato performativo (“lo dico quindi lo sto facendo”) e che non può nemmeno essere considerata come un punto di partenza dato, oggettivo. La solidarietà è l’accadere di un incontro: ha a che fare con il tempo. Tempo della condivisione, dell’ascolto, dell’agire comune. Il prima e il dopo che segnano l’arrivo della Carovana.

La giornata del 29 aprile non ha sancito una solidarietà da sempre esistente, ma l’inizio di un nuovo compromiso, di una nuova postura carica di verità: quelle dei famigliari, degli amici e dei compagni dei 43 desaparecidos. Verità che ora sono anche le nostre, di quel “noi” che le ascolta, le accoglie e le fa proprie.


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